lunedì 26 dicembre 2011

GRAPHIC DESIGN


Su richiesta di alcuni di voi pubblico il prezioso articolo di Stefania Bertani sul packaging. Vista l'urgenza di metterlo on-line, per il momento lo pubblico senza le relativa foto.
L'articolo in questione è stato ridotto e in parte semplificato rispetto all'originale, che potete trovare nel link sottostante. La lunghezza e la complessità dello stesso mi aveva indotto, fino ad ora, a non pubblicarlo.
Prima possibile completerò il tutto con le relative foto.




Articolo di Stefania Bertani (sintesi)

Il packaging


Sebbene una qualche forma di packaging sia sempre stata utilizzata per contenere e proteggere i prodotti, negli ultimi due secoli si è verificato un grande sviluppo e oggi, soprattutto in risposta alla domanda commerciale, il packaging è infinitamente più sofisticato e sviluppato che in qualsiasi altro periodo della sua storia. Nel moderno mondo delle reti di trasporto la distribuzione e la vendita al dettaglio dipendono completamente dal packaging, mezzo necessario per muovere e proteggere le merci nel passaggio dal luogo della produzione a quello del consumo.
La confezione di un prodotto, per certi versi scontata, opportunamente corredata può diventare uno strumento d’informazione, un media pubblicitario portatile e quindi parte del prodotto stesso, ampliando notevolmente la funzione primaria del packaging, che rimane sempre quella di contenere e di proteggere.
Le origini del moderno packaging si possono far risalire alla fine del Diciottesimo secolo quando la Rivoluzione Industriale introdusse massicci cambiamenti nell’industria manifatturiera: si svilupparono soprattutto scatole di metallo, più adatte del cartone alla vendita di merce deteriorabile – come biscotti o pasticceria – per la quale era necessario un elevato grado di protezione.
All’inizio del Novecento si chiede alla confezione di proteggere il contenuto durante il trasporto e di presentarlo all’ipotetico acquirente con un vestito elegante, che ne esalti la forma e soddisfi il desiderio visivo. La bellezza è una prerogativa assolutamente necessaria per l’involucro che, lungi dall’essere considerato entità comunicativa, viene sentito ancora come un oggetto totalmente indipendente dal contenuto: l’uno da consumare, l’altro da collezionare.

La situazione registra un primo mutamento intorno agli anni Trenta, quando gli Stati Uniti cominciano a guardare con maggior interesse il settore produttivo e pertanto anche il packaging riceve un’attenzione prima sconosciuta da parte di alcuni designer. E’ un cambiamento sottile, ma importante, perché la confezione viene considerata per la prima volta nella sua apparenza, ossia in quell’aspetto appositamente progettato per vendere meglio un prodotto, senza nessun’altra finalità.
Nella realtà commerciale è entrato un nuovo venditore, un silent salesman (commesso silenzioso), come recita una definizione d’oltreoceano, un soggetto non dotato di parola, ma pronto a lanciare messaggi nel circuito linguistico e abile a farsi capire.
La vera trasformazione che investe il mondo del packaging, mutandone le funzioni in maniera abbastanza radicale, risale al dopoguerra e in particolare agli anni Cinquanta, momento in cui anche l’Europa conosce il consumo di massa e soprattutto i sistemi moderni di distribuzione, tra i quali è senza dubbio la vendita self-service a modificare la realtà dei prodotti, che hanno il dovere e il diritto di possedere una confezione per entrare nel circuito commerciale.
Merce, acquirente, luogo di vendita e produttore sono i soggetti del mercato, tra i quali si vanno ora ad instaurare nuovi e differenti rapporti: al centro del sistema c’è la confezione che, da una parte cerca il dialogo diretto con il consumatore, bisognoso di rassicurazione perché ha perduto ogni contatto diretto con il luogo e i soggetti di produzione, dall’altra risponde alle esigenze distributive, ai problemi d’immagazzinamento e disposizione dei prodotti nel punto vendita.
Inoltre se le merci aumentano in termini quantitativi necessitano di un tratto distintivo, funzionale o estetico o di entrambi, per essere riconoscibili tra la folla di prodotti che animano gli scaffali dei supermercati. 
L’aspetto economico riguarda ovviamente il costo dell’imballaggio che non dovrebbe incidere in maniera eccessiva sul prezzo finale del prodotto, anche se esistono articoli d’alta gamma (e non solo) sfuggenti a questo requisito. Un esempio senz’altro efficace è rappresentato dalla bottiglia in vetro blu dell’acqua Ty Nant: un’acqua scozzese simile a tante altre in commercio che ha avuto la fortuna d’essere protagonista di una straordinaria operazione di marca, dovuta ad un’industria italiana abile nell’acquistare la fonte e nel ricercare un packaging capace di accrescere il valore del prodotto. Ma, fascino a parte, resta soltanto acqua, pur costosa come un vino, che ha trovato nel colore della bottiglia un elemento distintivo e accattivante.
 
Contenitori resistenti, facili da trasportare, leggeri, sicuri, d’ingombro ridotto riscuotono in genere presso il pubblico un’accoglienza positiva: il brik, introdotto con un alimento ben posizionato a livello simbolico come il latte, ha presentato indiscutibili vantaggi rispetto al vetro, ottenendo successo anche con altre bevande – il succo di frutta proposto in formati adatti all’uso familiare o al consumo singolo – e conquistando prodotti ricchi di storia e tradizione come il vino.
 

Il prodotto-servizio (le verdure surgelate, la polente precotta, il purè istantaneo, l’insalata già tagliata e lavata) ha l’intelligente scopo non di annullare, ma di semplificare i compiti di chi cucina;  il kit, scatola con diversi ingredienti per la preparazione di pizze, torte o focacce, offre precise indicazioni in modo che anche la mano meno esperta in cucina non possa.
La tecnologia è diventata, oggi, regina nella ricerca del piatto pronto ideale per la cui consumazione non serve né l’esperienza né l’attrezzatura di una cucina: come la cioccolata o il caffè che si scaldano premendo il fondo dell’involucro in cui sono contenuti, permettendo di portare in tasca una bevanda da consumare, sempre bollente, quando se ne ha necessità.


Allo stesso modo le chiusure che permettono di riutilizzare un prodotto non completamente consumato stanno ottenendo uno straordinario successo in campi molto diversi, dai sistemi d’erogazione di cui sono dotati pacchetti di sale o zucchero ai numerosi dispenser studiati per confezioni di caramelle o chewin-gum: la scatola di Tic Tac con linguetta ad incastro, o quella  in latta dei tabù dotata di un doppio dispositivo rotatorio a scorrimento o tutti i pacchetti in commercio (Golia, Ricola, Daygum, Choralit…) forniti di una linguetta apri e chiudi.

E’ l’accessibilità al prodotto, probabilmente l’aspetto su cui più recentemente si sono concentrati i designer, che arriva a toccare la pura tecnologia laddove vengono proposte soluzioni all’avanguardia come il tappo del Gatorade: un vero capolavoro d’ingegneria che permette di aprire e chiudere la bottiglietta con un semplice gesto e soprattutto con una sola mano, eliminando la fatica e i secondi spesi nell’avvitare il classico tappo di tutti i contenitori per bibite.

Resta l’aspetto promozionale, realizzato spesso attraverso fattori estetici, formali ed emotivi aventi lo scopo di proporre la confezione come canale di collegamento tra i messaggi evocati dal prodotto e i valori di riferimento del consumatore. L’imballaggio, pertanto, non deve annunciare soltanto cosa contiene ma svolgere più complesse funzioni simboliche e semiotiche (segni come sistemi di comunicazione).
Nel primo caso si può far riferimento all’uso di un colore disposto a suggerire uno status sociale (l’oro per indicare prestigio), o alla scelta di un materiale che nell’immaginario collettivo abbia una connotazione positiva (il vetro per suggerire freschezza e genuinità).
Nel secondo caso vanno considerate tutte le situazioni in cui la confezione o parla del prodotto riproducendone alcune caratteristiche (i vasetti di marmellata con le fotografie dei fruttila facilità d’apertura di una scatoletta di tonno può essere un fattore determinante per la vendita), o coinvolge l’emotività del destinatario risvegliando in lui ricordi nostalgici (le buste di minestre e zuppe che presentano campi coltivati o distese di verde rappresentano una realtà ambientale ben lontana dal presente e facilmente desiderabile).

Design e immagini hanno in molti casi costruito la base di solide identità aziendali: nel contenitore vengono riprodotti forme, colori, disegni già usati nei cartelloni pubblicitari, sulle casse o sui mezzi di trasporto del produttore -  la Barilla imprime lo stesso marchio (ovale rosso con il nome in bianco) sulle scatole di pasta e sui furgoni usati per distribuirla.



Funzionalità e comunicazione
Il packaging riveste il ruolo più importante nell’identità del prodotto, in quanto contiene tutte le informazioni necessarie o significative relative ad esso e rappresenta talvolta l’unico strumento di affermazione sul mercato, ricoprendo, quindi, una notevole importanza in termini di successo commerciale.
Questo aspetto è di competenza primaria, benché non esclusiva, della grafica che dichiara immediatamente il nome del prodotto, identifica la marca d’appartenenza e rappresenta il contenuto.

“Quando i produttori sono diversi e i prodotti sono più o meno gli stessi, come di fatto accade nell’odierna economia di scambio”, il marchio si trasforma in testimone di fedeltà o “diventa per così dire una protesi, che viene a colmare una manchevolezza dell’oggetto in quanto merce”, diventa valore aggiunto, simbolo di riconoscimento, distinzione, certezza per un consumatore sempre più disorientato di fronte alle proposte del mercato, dove “marche generiche”, ossia prodotti anonimi riuniti sotto ad un’unica firma (i diversi prodotti Star: dadi, sughi, minestre…), si mescolano a “marchi ad ombrello” che sviluppano all’interno del marchio originario una serie di nomi propri capaci di diventare talvolta assolutamente autonomi (i Ringo della Pavesi).

La confezione attraverso la grafica racconta non necessariamente il prodotto reale, ma quello che era prima di essere trattato industrialmente o quello che potrebbe diventare dopo una manipolazione successiva da parte del consumatore.
Lo stile di queste immagini si potrebbe definire iper-realistico “E nessuno si meraviglia poi troppo che il piatto confezionato non assomigli più all’idea che tradizionalmente associamo al suo nome, nessuno si sorprende che il tonno non assomigli al tonno, che i sofficini di pesce o carne siano strani tondi gialli, e così via. Il richiamo dell’atto del mangiare viene allora attraverso la rappresentazione in copertina della confezione.

Si parla poi efficienza psicologica della forma, distinguendola dall’efficienza funzionale: contenitori in grado di attirare l’attenzione del pubblico, facendo leva su valori emozionali o creando particolari connessioni con gli oggetti scelti come riferimento.
La bottiglia in pvc dello yogurt Actimel (e simili) - esempio diverso da quello riportato nell'articolo  - riproduce nella sagoma un flacone farmaceutico per suggerire l’idea di un prodotto avente qualità nutritiva tanto alta da poter competere con una medicina.

L’imballaggio genera così legami emozionali tra contenente e: il Toblerone con quell’inconfondibile forma pare aver suggerito la realizzazione di un packaging dall’originale sezione triangolare, anche se con l’introduzione di nuovi gusti alla gamma Toblerone sono stati aggiunti altri colori di sfondo per differenziare i vari tipi.


Oltre a grafica e forma oggi entra a far parte della progettazione di un pack anche la scelta del materiale, che offre al designer numerose e differenti soluzioni sia in termini di praticità che di visibilità e comunicazione.
Il vetro, stabile, igienico, riciclabile, è sincero e disponibile a far parlare il contenuto, donando forte identità ai prodotti attraverso le forme ardite e i colori persuasivi con cui può essere presentato.
La carta e il cartoncino rispondono ad alcuni dei megatrends che da più lati coinvolgono il mondo del packaging: ecologicità, facilità d’uso e soprattutto capacità di favorire la comunicazione sia in termini di visibilità che di riconoscibilità sullo scaffale, sia in termini di resa cromatica e di soluzioni estetiche sia, infine, per ciò che riguarda l’alto contenuto informativo e deduttivo.
La banda stagnata è ormai sinonimo di comodità nel facile approccio al cibo in scatola, diventato l’abitudine a cui probabilmente i nostri sistemi di vita non potrebbero più rinunciare.
Infine “l’eccessivo protagonismo” della plastica che con numerose soluzioni applicative e ampie possibilità d’accoppiamento con altri materiali (carta, cellophane, alluminio) offre involucri duttili nelle prestazioni, espressivi negli aspetti formali e capaci di proporre una nuova estetica del quotidiano.

Nei sistemi di vendita self-service, oggi la maggioranza,  la capacità del prodotto d’instaurare un dialogo con l’interlocutore trova la massima espressione, considerato che i più, vittime del cosiddetto marketing “degli ultimi cinque secondi”, decidono gli acquisti davanti allo scaffale scegliendo le offerte maggiormente convincenti da un punto di vista seduttivo.


Packaging come racconto

Col pack l’individuo conosce il prodotto conservato e il cibo confezionato.
Acquistiamo i cibi spinti dal desiderio di vedere in essi riflessa la nostra personalità.
Idee in forma”,  appare una  definizione appropriata per l’imballaggio diventato  il risultato della trasformazione di un segno in immagine: il whisky per l’uomo di classe, lo yogurt magro per la ragazza a dieta, il piatto precotto per la donna in carriera, la pasta biologica per l’ecologista convinto
Il packaging dei prodotti alimentari ha in particolare modo il compito di raccontare le qualità dell’alimento, perché c’è bisogno di percepire la freschezza, la genuinità, magari anche il sapore del cibo che si acquista senza vedere, toccare o annusare.
L’imballaggio ha in questo modo costruito una “messa in scena”, ove il consumatore potrà attuare  un dinamico processo d’identificazione, riconoscendosi in uno dei miti proposti dalla confezione o  leggendo nell’immagine del prodotto i segni della propria condizione sociale, dell’età e delle personali scelte di vita.
Il packaging, infine, parla al pubblico con la voce suadente del narratore di fiabe che attira l’attenzione di chi ascolta promettendo il contatto con mondi sconosciuti.
Un nuovo cioccolatino della Milka Montelino presenta una confezione che, partendo dalla base tipica di un parallelepipedo di quattro lati, sale in maniera regolare per 1/3, poi si restringe improvvisamente fino a terminare a punta. Questa verticalità ricorda una vetta, il pack ideale per un cioccolatino che nella forma riproduce una montagna, dove la cima innevata è resa con l’uso di una diversa qualità di cioccolato (bianco rispetto al corpo scuro).

 

Packaging classico

E’ particolarmente interessante l’analisi di alcuni packaging che si possono definire “classici”: hanno avuto successo per l’introduzione di innovazioni tecnologiche o di design oppure attraverso un marchio forte immediatamente riconoscibile.
Il barattolo (l’idea di conservare generi alimentari in un barattolo di metallo risale ad almeno duecento anni fa), il contenitore per le uova (rimasto inalterato nel design sin dalla sua prima ideazione negli anni Trenta), la lattina, forme industriali pressoché identiche da centinaia di anni, nascondono in realtà una costante ricerca dell’essenzialità e della riduzione,che implica una continua e progressiva messa a punto del progetto e dei processi di produzione.

L’imballaggio conduce una vita autonoma nel racconto dei media tramite il proprio alter ego comunicativo: il blu della pasta Barilla, il giallo del Mulino Bianco, la bottiglia della Coca-Cola un’identificazione senza indugi sullo scaffale dopo essere già state memorizzate attraverso il passaggio di una rivista o di una pubblicità televisiva. traducono in immagine la personalità del prodotto tanto da permetterne

La scatola del latte, oggetto tanto comune da non attirare più attenzione, è protagonista di uno statuto quotidiano di gesti che, nonostante non siamo in grado di classificare come tali, si rivelano portatori di senso: quando ogni giorno apriamo una confezione di latte sollevando una delle quattro linguette incollate al cartone e tagliando lungo le linee indicate, non pensiamo certo di esser autori di una metamorfosi, invece stiamo proprio trasformando quell’oggetto in qualcosa di diversamente ma ugualmente utile. Siamo di fronte ad un ottimo esempio di design - come prodotto funzionale - e di packaging assai efficiente ormai entrato nell’uso. Ma una volta c’era solo il latte sfuso che veniva venduto in bidoni e recipienti senza essere sottoposto ad alcun trattamento di sanificazione. Nel 1951 l’industria svedese Tetra Pak presenta a Lund tra l’incredulità di tutti gli operatori del latte una confezione in carta a forma di tetraedro: al consumatore si offre una soluzione pratica (il cartone proteggendo il prodotto dalla luce ne prolunga la durata oltre i tre giorni) leggera e funzionale con l’eliminazione del vuoto a rendere. Il tetraedro, diffusosi  in tutta Europa e presto sostituito da una confezione ancor più pratica a forma di parallelepipedo, il Tetrabrik (lanciato nuovamente dalla Tetra Pack in Svezia nel 1963), ha veramente rivoluzionato l’immagine del latte, che entrato tra le confezioni usa e getta perde il vissuto mitico e fantasioso di prodotto genuino proveniente dalla natura. Forse le bottiglie in plastica bianca presenti oggi in commercio nascondono la possibilità di evocare quelle emozioni perdute: ricordano nella forma il bricco in vetro che si lasciava davanti alle porte delle case pronto ad essere riempito da un puntuale lattaio e richiamano nel colore, in una sorta di gioco metonimico, il prodotto stesso quasi a segnalarne visivamente la freschezza.



La lattina da bibita, simbolo incontrastato e incontrastabile della cultura giovanile degli ultimi decenni, si diffonde soprattutto sull’immaginario del “mitico” mondo statunitense: sono stati proprio gli americani a produrre, nel 1885, i primi liquidi conservati in lattina, utilizzando inizialmente contenitori in acciaio con un coperchio a forma di cono sigillato mediante un tappo di sughero “a corona. Poi l’alluminio accoppiato all’ “apertura facile” (la linguetta a strappo), oggi sostituita dalla meno inquinante linguetta non staccabile, ha trasformato la lattina in un fenomeno sia nel mondo della produzione che in quello dei consumatori: ci sono bevande che non possono essere pensate senza la lattina e la lattina per antonomasia viene associata a tutte quelle bevande che identificano un modo di bere  giovane e frizzante, alternativo alla classica tavola apparecchiata.
Siamo alla metà degli anni Sessanta, in pieno boom delle materie plastiche, quando sul mercato francese fa la sua prima apparizione una bottiglia in Pvc d’acqua minerale: un’innovazione in un mondo dominato dalle sole bottiglie in vetro la cui forma era standardizzata e per nulla comunicativa: l’acqua era solo acqua senza marca, senza colore e senza qualità aggiuntive legate ai componenti.

L’acqua Uliveto è consigliata agli sportivi perché ricca di calcio, l’acqua Rocchetta suggerisce strabilianti effetti diuretici, l’acqua Levissima “dalla sorgenti di alta quota” – come recita lo slogan pubblicitario che campeggia anche sulla confezione – garantisce una freschezza senza pari, infine l’acqua Vitasnella con lo 0.0002% di sodio promette addirittura un effetto dimagrante. 

Ma sono soprattutto le trasformazioni a livello formale a generare interesse, perché il profilo dei contenitori, rimasto invariato da decenni e assolutamente identico per tutte le marche conosce un nuovo sviluppo che arriva a toccare addirittura la tecnologia: la “strozzatura” dell’acqua Vera realizzata rendendo la sezione della bottiglia perfettamente rotonda e rinforzata con una serie di nervature dal profilo sinuoso e dall’orientamento a spirale, è qualcosa di geniale dal punto di vista ergonomico


Barilla

Nei supermercati odierni  è familiare a  tutti  il “muro” blu della pasta Barilla, ma non è sempre stato così… Fino alla metà del nostro secolo la pasta era uno di quei prodotti ancora venduti sfusi: l’arrivo dei pacchetti significò protezione, igiene, garanzia di qualità, ma soprattutto comunicazione.
Solo nel 1968 esce una normativa in seguito alla quale il confezionamento della pasta diventa obbligatorio; Barilla, aveva largamente preceduto questa tendenza commercializzando il prodotto in confezioni chiuse già dagli anni Cinquanta. 



 Mulino Bianco
“Ti ricordi quei buoni biscotti che sapevano di burro, di latte e di grano? Domattina cercali al Mulino Bianco.” Così recita il primo annuncio per il lancio di questo nuovo marchio: un nome disposto a parlare di genuinità e purezza, di tempi lontani e di sapori ormai perduti.
Finisce l’epoca dei biscotti sfornati dalle nonne nei giorni di festa e inizia la fase del consumo giornaliero di questi dolci.
Ma la vera rivoluzione di Mulino Bianco è quella di infilare i biscotti in un sacchetto, il primo di piccole dimensioni, prima del quale i frollini più ricchi erano in scatola e i biscotti secchi in confezioni ad astuccio.
Il tipico rumore che fa il sacchetto quando si riavvolge ricorda i cartocci in cui i fornai mettono ancora il pane e il giallo, scelto per la confezione, richiama alla memoria “ il colore della farina lattea, della pasta dei biscotti rubata alla mamma prima che vadano in forno, o dello zabaione

L’idea della fiaba è stata poi resa esplicita negli spot televisivi: i caroselli-filastrocca dove la mamma rievoca un mondo lontano che appare simbolicamente in poche spighe di grano (1976), la serie cosiddetta “rurale” con diversi spot ambientati in una campagna fatta di aie chiassose, cucine animate e vecchie tradizioni (fine anni ’70 - metà anni ‘80), i disegni animati con le microstorie del “Piccolo Mugnaio” e della “Bella Clementina” (anni ’80) e infine la saga della “Famiglia del Mulino” (primi anni ‘90). Questa volta è una famiglia moderna che va a vivere nel Mulino, riscoprendo la campagna e la sua storia come possibile scelta di vita alternativa alla città.
Gli ultimi esempi pubblicitari (2000/01) hanno abbandonato il “fiabesco” mondo contadino per scegliere direttamente la dimensione della favola: un grande libro con impresso il logo del Mulino in copertina si apre e per magia cominciano ad uscire personaggi ben riconoscibili tra cui Biancaneve, la Bella Addormentata e la Fata Turchina.

Il bacio Perugina
Il 1922 è l’anno storico che vede la nascita del prodotto più celebre, quello con cui ancora oggi viene identificata l’azienda: il Bacio.
Il nome, il famoso cartiglio e la scatola stessa con la sagoma dei due innamorati hanno contribuito a creare un notevole immaginario intorno al cioccolatino, diventato un messaggero d’amore capace di superare negli anni tendenze e mode. La scatola stessa si presenta come un “abito” indovinato ed elegante, un capolavoro di design, che ha mostrato la sua forza rimanendo pressoché inalterata per anni: una coerenza d’immagine resa possibile dal successo ottenuto.
Nel 1981 appare il ben più rivoluzionario tubo con lo scopo di raggiungere nuovi consumatori, i giovani. Gli anni Ottanta sono soprattutto gli anni dei giovani, soggetti cui bisogna rivolgersi con il linguaggio che loro appartiene.“Tubiamo?”, scaturito dalla forma della nuova confezione, diventa, nel gioco implicito tra lo scambiarsi i cioccolatini e l’amoreggiare come fanno i piccioni, un messaggio particolarmente adatto a tradurre il modo libero e scanzonato con cui l’amore è sentito dalle ultime generazioni.
Queste innovazioni ben dimostrano che il Bacio non abbia voluto essere un prodotto da vendersi sfuso ma ben ancorato all’idea della confezione, capace da sola d’instaurare un dialogo con il pubblico. 



Coca cola e Campari: la scelta  della bottiglietta
Non una qualsiasi bibita in lattina, ma la Coca-Cola nella bottiglietta.
Parlare di packaging sembra quasi riduttivo, perché si tratta di un vero capolavoro di design che ha attraversato un secolo senza subire alcun sostanziale cambiamento e ha conquistato diverse generazioni, diventando addirittura un pezzo storico ricercato dai più accaniti collezionisti.

Il 1916 è l’ufficiale anno di nascita in cui l’originale bottiglia viene ideata dalla Root Glass Company dell’Indiana, per rispondere alle esigenze di Benjamin Thomas, che aveva richiesto “una bottiglia unica al mondo” in grado di essere riconosciuta da chiunque anche al buio.

All’inizio la Coca-Cola era disponibile presso le “soda fountains”, vale a dire i banchi di bevande analcoliche diffusi nelle farmacie dell’Americana puritana di fine ‘800, solo successivamente con la rivoluzione della bottiglietta, che porta il prodotto ovunque, prima nel territorio americano poi oltreoceano,  diventa una bibita rinfrescante adatta ad essere consumata in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.

Questo contenitore passa attraverso vari accorgimenti tecnici e abili mani di designer prima di assumere quella forma inconfondibile che ricorda una silhouette femminile: si può definire una vera e propria evoluzione storica, della quale ci sono rimaste le testimonianze.
 L’azienda, ben capito il valore che quel contenitore aveva assunto nell’immaginario collettivo, ha deciso di non modificarlo per quasi cent’anni, rimanendo fedele ad un’immagine dove forma e contenuto hanno raggiunto una simbiosi pressoché perfetta, di cui non esistono altri esempi.
Jean Pierre Keller approfondisce tale aspetto arrivando a tracciare un’identificazione tra la bottiglia da una parte e liquido, nome, grafica dall’altra: il profilo curvilineo della confezione richiamerebbe in primo luogo le bollicine della bevanda pronte a sprigionarsi verso l’alto all’apertura, poi il ritmo binario del nome dove vocali aperte e chiuse si alternano, infine la scrittura sinuosa del marchio fatta di profili concavi e convessi ad un tempo.


Vera novità soprattutto nei metodi di consumo è il Campari Soda, lanciato sul mercato nel 1932 con un’ampia campagna pubblicitaria: un derivato del Bitter che, eliminato il cerimoniale di bottiglia, sifone e bicchieri, permette di gustare il prodotto con la disinvoltura di una bibita analcolica grazie alla piccola confezione monodose, igienica e pratica, al vetro smerigliato che facilita l’impugnatura e al tappo a corona che, a differenza del tipo a vite, suggerisce un consumo rapido e totale. La bottiglietta riprende le fattezze di un calice rovesciato che ritrova la sua identità nel momento in cui la confezione, capovolta, viene portata alla bocca: un omaggio al passato quando l’aperitivo si poteva bere solo in bicchieri di quel tipo nell’elegante atmosfera di un bar o di un importante ricevimento. 




Come sottolineato anche nella descrizione del profilo qui a sinistra, se la pubblicazione di questo articolo non dovesse avere l'autorizzazione dell'autrice, invito l'autrice stessa a contattarmi e sarà rimosso. Sottolineo intanto l'utilità dello stesso per l'esplicazione dei numerosi concetti sul design tenuti durante la lezione lodando il lavoro della a me sconosciuta Stefania Bertani.